Total Look: Conversazione con Milena Canonero
di Roberto Lasagna e Saverio Zumbo
Per Arancia Meccanica, la sua prima
collaborazione con Stanley Kubrick, nonché il primo film a cui lei ha preso parte,
in che misura vi siete ispirati al romanzo di Burgess?
Il romanzo A Clockwork Orange descriveva a tinte forti dei
personaggi ambientati in un futuro piuttosto lontano. Kubrick invece voleva seguire
una direzione differente, per creare una sorta di ambiguità temporale
che ci avvicinasse all'epoca in cui lavoravamo. Dunque non abbiamo creato
un mondo completamente nuovo perché non era nelle sue intenzioni
andare verso uno "Science Fiction Movie" vero e proprio.
E per
ciò che riguarda l'aspetto più immediato del suo lavoro,
ovvero l'ideazione dei costumi si può dire che sia rimasto qualcosa
di Burgess...
L'unica cosa in cui sono rimasta fedele al libro sono i cod-pieces, cioè
le protezioni dei Drughi. Tuttavia nel romanzo risultavano molto elaborate
mentre io ho preferito adottare una soluzione più semplice. Poiché
ero alla mia prima esperienza nel mondo professionale del cinema, Kubrick
mi ha dato molte indicazioni introducendomi alla lunga preparazione
del suo film. In primo luogo mi ha coinvolto nella ricerca dei luoghi
e mi ha mandato a fotografare certi ambienti sotto la direzione del
production designer. Stanley Kubrick voleva che mi rendessi conto di
cosa lui cercasse. Così il mio primo strumento di lavoro è stata
una macchina fotografica, una Nikon con grandangolare. Abbiamo fotografato
moltissimi sopralluoghi perché S. K. è un regista che
vuol fare la sua selezione dopo che si è esaurita la scelta.
Ha una grande avidità artistica e intellettuale. E mi ha sempre tranquillizzata,
dicendomi di non preoccuparmi dell'organizzazione, ma unicamente dell'immagine.
Procedendo nel lavoro elaboravo delle soluzioni e ad un certo punto
ne abbiamo parlato. Tra le altre cose gli ho esposto il progetto di
vestire i Drughi di bianco, come infatti appaiono nel film. Questo è stato
il punto di partenza. In quel periodo le gang e gli skin-heads erano
una realtà sociale di cui si parlava molto. Io, allora, mi trovavo già
a Londra e, pur stilizzando, mi sono ispirata a ciò che vedevo intorno a me.
Arancia Meccanica fece scalpore per
il modo in cui affrontava il tema della violenza...
E' vero, ma a parer mio quella di cui si tratta nel film di Kubrick è una violenza
molto metaforica e non gratuita.
Nello stesso periodo uscì un altro celebre film sulla
violenza, Cane di paglia, e ci fu chi lo avvicinò al
film di Kubrick...
Sono dei confronti piuttosto superficiali, che non riescono a cogliere l'aspetto
profondamente morale di un film come Arancia Meccanica.
Il messaggio è chiaro: non si può eliminare l'aggressività
di un individuo, per quanto violento esso sia, se non c'è volontà
da parte dell'individuo stesso, perché si finisce con il castrarlo
e col lasciarlo in balia della violenza altrui. Ed è meglio che
rimanga così piuttosto che un uomo che non ha scelta. La scelta
tra il bene e il male.
Con Kubrick
avevate parlato della violenza prima di iniziare le riprese?
No, non è un regista che si sieda a tavolino perdendosi in dettagli
per spiegarti il film. Lo realizza e chi lo vede ne ricava la sua personale
conclusione. L'opera è lì sul copione, è nel modo
in cui la gira e la fa interpretare.
La realizzazione di Arancia Meccanica
è stata coinvolgente?
Sì, moltissimo, è stata la più eccitante esperienza
di lavoro della mia vita. Dagli studi che stavo completando sono passata
al grande cinema: costumista in un film di Kubrick... Nell'osservare il
suo modo di girare il film, gli obiettivi che usava, le luci che sperimentava,
come entrava nei dettagli e come dirigeva gli attori, mi rendevo conto
che si trattava del lavoro di un genio, nonostante la mia mancanza di
esperienza.
Quando è stata invitata a lavorare per
Arancia Meccanica si è imposta di fare valere alcune sue
idee precise oppure...
No, assolutamente. Le cose prendono forma, maturano, non si risolvono
certo all'improvviso, soprattutto in fase iniziale. Kubrick mi ha circondata
di persone assai esperte sul piano organizzativo, mentre su quello artistico
mi ha lasciato grande libertà di espressione.
Lei ha preso parte alla realizzazione di tre dei più
celebrati film di Kubrick: Arancia meccanica,
Barry Lyndon e Shining.
A propostito di Barry Lyndon, come lo considera, più
realistico o poetico?
Lo considero un film molto poetico, ma di un poetico tutto particolare,
perché ironizza sulle debolezze del protagonista. E' un film
di una bellezza più pittorica che realista. In ogni suo lavoro
Kubrick inventa una tecnica adatta per il suo film e in Barry
Lyndon domina il tracking-zooming, questa grande apertura di campi visivi insieme
alle zoomate, i lunghi movimenti di macchina che si accompagnano alla
musica. Il "passo" stesso del film, il suo andamento è del
tutto differente rispetto alle altre opere. Kubrick è nuovo
ogni volta che dirige un film, non si copia, non si ripete. Qui il
segreto della sua unicità. Pur rimanendo lo stesso, perché le
sue opere sono sempre attraversate da uno humour sottile e particolare,
sa formulare ogni volta una scrittura adatta all'opera che realizza,
come succede in Arancia Meccanica, oppure in
Shining.
Entriamo adesso nel merito del suo apporto più diretto
ai film: i costumi...
Ci siamo appoggiati ad una ricerca pittorica reinterpretandola per non
cadere nell'accademismo. All'epoca del film ho girato l'Europa per vedere
cosa c'era di già disponibile, per sapere se dovevamo realizzare
tutti i costumi o solamente una parte. Così ci siamo accorti che
molti degli abiti che avremmo potuto noleggiare erano insoddisfacenti,
tagliati in un modo che io definisco "teatrale", con le spalle
quadrate, moderne, confezionati con tessuti inadatti. Così tutti
i costumi che appaiono in Barry Lyndon sono stati confezionati
apposta per il film, fatta eccezione per cinque modelli - solo cinque!
- affittati in una casa di noleggio di Roma. Abbiamo allestito un laboratorio
di oltre quaranta persone, cosa piuttosto inaudita prima di allora per
un film, e assieme a Ulla Britt Soderlund supervisionavamo questo enorme
lavoro. I costumi di Barry Lyndon furono naturalmente tagliati
sui modelli dell'epoca, con una cura molto particolare anche ai busti
e alla biancheria dei tempi. Solo le scarpe furono realizzate da Pompei
di Roma. Naturalmente abbiamo voluto dare alle scene una certa eleganza,
romanticizzando quel periodo storico. E questa è stata l'indicazione
che Kubrick mi ha dato per l'armonia del suo film.
Soffermiamoci sulle indicazioni di Kubrick per
Barry Lyndon.
Stanley desiderava che il film avesse una sua poesia, che riflettesse
una visione idealizzata e ironica del Settecento; non era nelle sue
intenzioni restituire un'immagine realista e cruda. Per questo, come
prima cosa, mi mandò in Europa a comprare tutte le edizioni disponibili
delle illustrazioni d'epoca al fine di costruire una biblioteca di referenti;
da lì si fece una scelta che influenzò l'ispirazione visiva
del film. Ci siamo ispirati molto a certi pittori dell'epoca, tra i
quali, ad esempio, Gainsborough, Reynolds, Chadowiecki, Chardin, Stubbs,
Cooper, Zoffany. Fu anche molto suggestivo e completamente nuovo l'impiego
delle candele come fonte di illuminazione. Stanley aveva fatto adattare
una lente speciale Zeiss che non era stata mai utilizzata prima per
un film, grazie alla quale ha potuto fotografare delle scene realmente
a lume di candela. Anche in quel caso Kubrick aveva sperimentato un'innovazione
tecnica adatta per il film.
E nel lavoro successivo, Shining,
Kubrick utilizza con grande perizia la steadicam, un'altra innovazione tecnica che
tanta parte avrà nel cinema americano a venire...
La steadicam era stata da poco inventata da Garrett Brown e pochissimo
utilizzata prima di allora. In Shining invece veniva impiegata
con continuità come uno degli elementi espressivi portanti perché
rendeva bene la situazione carica di ansietà dell'Overlook Hotel.
Kubrick aveva chiamato l'inventore stesso della macchina affinché
si prestasse a fare da operatore per il suo film. Questi rimase con noi
per tutto il tempo di lavorazione. Ci vuole una grande abilità
e una notevole agilità per usare bene la steadicam.
Tra le tante leggende che sono nate sul lavoro di Kubrick,
una riguarda le magliette del piccolo Danny di Shining:
secondo alcuni il regista avrebbe girato diversi ciak vestendo il bambino in modo
sempre diverso, per avere poi la possibilità di scegliere la maglietta giusta
in fase di montaggio...
Questa è una vera stupidaggine, che solo gente che non è
del mestiere si potrebbe inventare... Mi stupisco che se ne parli in
questo libro, ma se è per mettere a tacere una volta per tutte
una simile "leggenda" le rispondo che è certamente falsa. Ci sono
tanti metodi per vestire gli attori e per fare approvare i costumi dal
regista. Si può cominciare dai bozzetti, poi ci sono le foto
delle prove. A volte, durante le prove, i registi vogliono essere presenti;
altre volte preferiscono non esserci e lasciarti completa "carte
blanche", così li trovano sul set già pronti. Naturalmente
questo avviene dopo che sia stato discusso assieme il look. Kubrick,
visti i primi esemplari e la direzione che si segue, ti lascia molta
libertà.
I costumi per il piccolo protagonista di Shining servivano
a descrivere il divertimento e l'amore della madre verso il figlio e viceversa; Wendy,
la madre, indossa invece dei costumi che le conferiscono quell'aria
sospesa tra le nuvole, un misto di donna e bambina. E quando "l'orrore"
invade la scena, questo contrasto diventa ancora più evidente.
Ad ogni modo, prima di girare si fa un piano di lavoro che prevede tutti
i vari cambiamenti di costume secondo le esigenze del copione e del
budget. Nessun regista sarebbe mai così insicuro o ottuso da
non sapere cosa vuole e da girare la stessa sequenza con vari cambiamenti
per poi scegliere solo in fase di montaggio! Il regista può avere
varie scelte per l'interpretazione o i "set up", ma non di
certo per delle magliette!
Questa
come altre leggende si lega all 'idea mistificante di regista che ha il
controllo totale della scena e che in fase di montaggio realizza il mito
del cinema come creazione pura...
E' vero che Kubrick dedica moltissima cura ai dettagli e alle ricerche.
S. K. va a fondo in tutto: si occupa della regia, del montaggio, ma anche
del lancio del suo film. Cura di persona perfino il doppiaggio in lingua
straniera, come ben pochi registi fanno. All'uscita dei suoi film fa controllare
le copie, i proiettori e la qualità del suono nelle sale. Anche
su questo nacquero inverosimili leggende che non perdo tempo a ripetere.
Kubrick non è un eccentrico irragionevole come certa gente vorrebbe
far credere ma un uomo di genio, un grande artista che quando fa o decide
qualche cosa lo fa con intelligenza. Per tornare ai costumi, fu Stanley
a insegnarmi l'importanza di disegnare e supervisionare il "total
look" dei personaggi e dell'atmosfera. Mi diceva che gran parte del
cinema è la testa e che quindi dovevo cominciare da lì.
Lavoravo con Barbara Daly, make up, e Leonard, hair stylist, due grandi
artisti e cari amici che avevo introdotto a Stanley. Leonard aveva da
poco ideato i colori elettrici e stravaganti che più tardi furono
ripresi nel punk-look. Con lui elaborai in Clockwork Orange
i capelli con le meches viola e verdi delle ragazzine nella sequenza del milk bar
e delle ragazze che Alex si porta a casa. Peccato che non si vedano quasi
sullo schermo. Con Barbara decidemmo che i Drughi avrebbero dovuto avere
degli elementi di trucco stilizzato. Il più riuscito fu quello
di Alex. L'occhio con la ciglia finta. Prima provammo con entrambe le
ciglia; questo gli dava uno sguardo strano ma non terribile. Ma quando
togliemmo una ciglia capimmo che l'occhio rimasto con la lunga ciglia
finta rendeva quello sguardo inesorabile e surreale adatto al personaggio.
A Kubrick piacque tantissimo.
In Barry Lyndon introducemmo un certo tipo di make-up che si doveva
notare nelle scene eleganti ma che nello stesso tempo doveva apparire
delicato, mai moderno, per riportarci al make up di quei tempi, e ai quadri
d'epoca. Inoltre, nel diciottesimo secolo, in certi ambienti gli uomini
erano in competizione con le donne per belletti e ciprie, perciò
in alcune sequenze introducemmo anche per loro un make-up chiaro e dei
rouges che li rendevano candidi e perfetti come bambole, senza nulla togliere
alla loro virilità. Con Barbara avevo fatto molte ricerche sul
tipo di maquillage che si usava all'epoca, così scoprimmo che era
anche molto dannoso, e naturalmente noi lo riadattammo per non danneggiare
i nostri attori. Credo che raramente si fossero visti sullo schermo attori
tanto truccati. Dopo allora questo look è stato più volte
ripetuto, ma al momento era molto innovativo. Le parrucche furono ispirate
dalle ricerche, ma francamente nella realtà erano molto più
brutte, grossolane, sporche, e anche in questo caso abbiamo preferito
riferirci ai pittori che idealizzarono il Settecento. Molte parrucche
furono fatte apposta per il film anche perché il repertorio che
avevamo visto in giro era inaccettabile. Ma il lavoro è stato condotto
in modo sempre ragionevole, perché con Kubrick non si sperpera
e non è affatto vero quello che dice Vincent Lo Brutto nel suo
libro su Stanley Kubrick, il quale racconta di quindici parrucche che
sarebbero state preparate solamente per Ryan O'Neal. In realtà
Ryan aveva solo due parrucche e tre code, le code si applicavano ai suoi
capelli che venivano pettinati in varie maniere; mentre per Marisa Berenson
avevamo tre parrucche e due mezze teste. Certo, tra attori e comparse
alla fine creammo qualche centinaio di parrucche. E l'enorme libreria
di ricerche che avevo messo su per Stanley era sempre a nostra disposizione.
A lui piace il concreto e la parte più eccitante era quando io
e Ulla gli mostravamo i prototipi che avevamo preparato. Ricordo ancora
quando, tutte incipriate da Barbara Daly come se fossimo state di porcellana,
imparruccate da Leonard, il busto e un enorme cappello, presentammo il
look inglese alla Gainsborough. Prima degli attori eravamo noi a fare
da cavie, e Stanley mi fotografò per serbare il disegno del personaggio.
Questo periodo di preparazione (che noi chiamavamo di pre-production)
era il più eccitante e con Kubrick si lavorava in maniera molto
semplice, direi quasi domestica. Spesso abbiamo lavorato nel garage di
casa sua adibito a laboratorio, prima di stabilirci in altri posti quando
poi il lavoro si ingrandiva.
A casa di Stanley eravamo circondati da un ambiente caldo e simpatico,
e da tanti bellissimi cani, golden retrievers e gatti. Quando poi cominciavamo
a girare, S. K. dava a tutti i capi di dipartimento un Volkswagen mini-van.
Dentro al nostro, che guidavo quasi sempre io, avevamo organizzato un
piccolo ufficio d'emergenza. Eravamo sempre di corsa. Specialmente ai
tempi di Barry Lyndon, che comportò tutti quei cambiamenti
di luoghi. La polizia conosceva la "Scuderia Kubrick" e mi ha
spesso lasciata andare quando mi fermavano per eccesso di velocità.
In Shining invece non ci fu bisogno di questo metodo di trasporto
dato che il film fu girato quasi esclusivamente negli studi di Elstree.
Anche gli esterni dell'hotel e il labirinto con la neve, furono ricostruiti
in studio.
Lei ha lavorato per tre dei più celebrati film di
Kubrick, ne ricorda uno con maggiore entusiasmo?
Sono molto grata del fatto che Stanley mi abbia chiamata così spesso.
Ciascuno dei tre film è importante per me. Barry Lyndon
ha portato a me e a Ulla un Oscar, ma anche gli altri sono legati a momenti
davvero belli della mia vita... Avere fatto parte del mosaico, avere contribuito
alla realizzazione visiva è certamente una grande soddisfazione.
Un contributo non secondario per un regista visionario come
Kubrick...
E' il contenuto e non necessariamente l'immagine l'aspetto più
importante di un film. Con Kubrick l'enorme soddisfazione è consistita
nella possibilità di collaborare a tre opere che soddisfacevano
entrambe le esigenze. Lo sguardo che trasfonde nei suoi film è
unico.
I Film di Stanley Kubrick, Edizioni Falsopiano, 1997