A.I. from Kubrick to Spielberg: recensione
Il libro A.I. Artificial Intelligence – From Stanley Kubrick to Steven Spielberg: the vision behind the film racconta con testi e illustrazioni il più famoso progetto incompiuto di Kubrick, il film sull'intelligenza artificiale, a cui il regista ha lavorato a più riprese agli inizi degli anni '80 e nei primi anni '90 e che sarebbe entrato in produzione una volta concluso Eyes Wide Shut. Il film è stato infine realizzato da Steven Spielberg nel 2001.
Kubrick si era interessato ai computer e alle intelligenze artificiali alla fine degli anni '60, in piena lavorazione di 2001: Odissea nello Spazio; leggendo la novella di Brian Aldiss – il piccolo androide inconsapevole della sua condizione artificiale che desidera ardentemente l'amore della sua mamma, un'umana – aveva trovato un nocciolo perfetto attorno cui costruire una storia che avesse la complessità di un trattato filosofico pari a quelli che stava leggendo come documentazione (Mind Children di Hans Moravec soprattutto, con la sua mistura di scienza e socio-biologia) e al contempo l'impatto inconscio e di pancia di ogni mito.
Quale dovere morale avremmo noi umani – si chiedeva Kubrick – verso un robot da noi costruito che avesse la capacità di amare, di provare un genuino sentimento d'affetto e attaccamento verso uno della nostra specie? Sarebbe l'equivalente di un animale domestico? Sarebbe qualcosa di simile a un nostro figlio? Che dignità ontologica avrebbe questo essere creato a nostra immagine e somiglianza in un atto di marcata emulazione divina? E' facile individuare qui echi del Frankenstein di Mary Shelley, mito moderno sulla falsariga del classico Prometeo.
E ancora, sulla scia degli studi di psicologia cognitiva che simulano artificialmente il nostro comportamento per individuarne le specificità, cosa è l'amore? Cosa sono i nostri sentimenti, se un essere artificiale può emulare il comportamento di qualcuno che li prova? E se un robot si comporta come chi ama, si può dire che ami veramente? Cosa serve per amare? Vengono giustamente le vertigini a pensare a questi interrogativi.
Ma il progetto A.I. andava perfino oltre: combinando la storia dell'androide bisognoso d'affetto David con le disavventure del burattino Pinocchio (nuova variazione sullo stesso mito, con ribaltamento di prospettiva dal creatore alla creatura), Kubrick aveva compiuto un assoluto colpo di genio, individuando nella fiaba di Collodi il vero mito di fondazione della cultura degli androidi: il desiderio di essere umani, di diventare "un bambino vero," di raggiungere il regno della realtà, della verità, dove stavano coloro che li avevano creati. Forse, suggeriva Kubrick, solo diventando "veri," diventando umani, i robot avrebbero potuto ottenere l'approvazione dei loro creatori, guadagnandosi il diritto all'esistenza da noi gelosamente custodito e negato con innegabile disagio.
Kubrick avrebbe così anche indirettamente realizzato il miglior adattamento cinematografico di Pinocchio, cogliendone l'essenza, il cuore pulsante, il mito che Collodi non poteva pienamente comprendere perché ancora legato a un semplice burattino di legno e inconsapevole della pervasività dei burattini moderni di metallo e silicio. Un innesto potentissimo quello tra Aldiss e Collodi, anche a costo di rasentare il ridicolo inserendo la Fata Turchina in un film di fantascienza. Forse, suggeriva Kubrick con questo colpo di teatro, solo la magia avrebbe potuto permettere agli umani di superare le loro resistenze, di vedere come i robot senzienti potrebbero essere il naturale e inevitabile passo per scongiurare l'estinzione della specie umana, un passo non solo tecnologico ma evolutivo.
"They hate us, you know, the humans," ammette dolorosamente Gigolo Joe al piccolo David, e nella storia si apriva un altro squarcio, quello del diverso, il secolare muro eretto dalle maggioranze per tenersi ben distinte dalle minoranze, siano esse lo schiavo, la donna, l'omosessuale, il negro e, certo, il muro contro il diverso per eccellenza: lo spettro dell'Olocausto, evento di enorme importanza per Kubrick.
Super-Toys era un racconto perfetto per un film di Kubrick: una base narrativa, una storia efficace (anzi due dopo l'arrivo di Pinocchio) su cui poggiare i castelli teorici assorbiti in trent'anni di letture sull'argomento, una serie di domande ben più importanti delle risposte, una favola per adulti che puntava coraggiosamente alla fondazione di un nuovo mito moderno. Troppo complesso da gestire, un costrutto troppo pesante da sorreggere. Non sorprende che il progetto procedesse con lentezza durante gli anni, ostacolato come è stato detto dall'arretratezza degli effetti speciali ma anche, ne sono convinto, dalla sensazione di non aver ancora messo tutti i pezzi al loro posto. Però procedeva, andava indubbiamente avanti, nuovi tasselli, nuovi incastri, nuovi consulenti con il loro altrettanto valido contributo: Brian Aldiss, Bob Shaw, Ian Watson, Sara Maitland, la ILM, Chris Baker, tutti hanno lasciato il loro tassello, più o meno allineato con gli altri.
Il puzzle in costruzione è stato spazzato via da una imprevista folata di vento nel 1999 e ricomposto nel 2001 da Steven Spielberg. Proprio lui inaugura questo libro con una prefazione che racconta brevemente la sua amicizia con Kubrick e la collaborazione sul progetto, non senza qualche errore fattuale (nel 1993, convocato a Childwickbury dopo Jurassic Park, non poteva aver visto i disegni di Chris Baker, iniziati nel 1994) ma con indubbia modestia: "as proud of the film as I may be, I still wish we could have seen Stanley's version of A.I. It might have been his greatest achievement."
Devo tutto sommato dare atto a Spielberg di aver affrontato il compito di dirigere A.I. con passione e sincerità: il fatto di non aver assunto alcuno sceneggiatore per ricavare uno script dal groviglio di appunti e trattamenti kubrickiani scegliendo invece di scrivere tutto da solo, una cosa che non faceva dal 1977 con Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, è l'indubbia prova della sua volontà di rispettare il suo legame con Kubrick e mantenere il più possibile intatte le discussioni che i due avevano fatto sul progetto. Evitare uno scrittore su commissione ha impedito che si frapponesse un altro filtro tra noi e il film che avrebbe diretto Kubrick, oltre quello inevitabile della sensibilità di Spielberg.
Jan Harlan, produttore esecutivo di Kubrick e vera anima dietro alla realizzazione postuma di A.I., scrive al contrario un'introduzione dai toni forzatamente epici: "alla morte di Stanley nel 1999, vidi i mille disegni di Baker scivolare nell'oceano dell'oblio, insieme alla storia, alla sceneggiatura, ai tentativi falliti, all'entusiasmo e all'amore per questo progetto ambizioso. Ma Steven Spielberg è arrivato in soccorso e ha salvato tutto quanto..." Ripetendo il luogo comune del passaggio di consegne tra registi ("He's the best director for this anyway," sente Kubrick ripetere dalle nebbie del tempo) Harlan ci spiega come la sceneggiatura scritta da Spielberg sia migliore di quella abbozzata da Kubrick: può darsi, fatto sta che lo dice da otto anni senza permetterci di leggerla; ci deve bastare di sapere che Spielberg ha sviluppato alcuni personaggi, scartato certe scene e aggiunte altre, e dato una spinta in avanti alla trama.
Il punto peggiore arriva quando Harlan racconta come il problema principale nel 1993 fosse la realizzazione di un convincente robot bambino: "Nessuno avrebbe creduto che il personaggio della madre avrebbe potuto amare un pupazzo." La scelta ovvia era utilizzare un bambino vero, ma Stanley aveva lunghi tempi di lavorazione e ben sapeva che si sarebbero notati cambiamenti dovuti alla sua crescita. Fortuna che è arrivato Spielberg con le sue produzioni lampo, dice Harlan. Peccato, dico io, che Harlan non abbia minimamente compreso il punto che si nascondeva dietro l'ostinazione di Kubrick di voler creare un animatronic convincente: immaginiamoci i climax emotivi del film, con David abbandonato nel bosco da sua madre, o il suo suicidio dopo le sconvolgenti rivelazioni sulla sua vera natura, o perfino le lacrime che scendono dai suoi occhi quando si sente finalmente dire "ti amo" da sua mamma – immaginiamoci queste scene "recitate" da un robot, immaginiamoci tutto il film senza il pur bravo Haley Joel Osment; il pubblico si sarebbe emozionato, avrebbe pianto perfino, per i sentimenti provati da una macchina. Un essere digitale (un Gollum, per citare l'esempio più riuscito) non avrebbe toccato il punto teorico con la stessa efficacia, per questo aveva tenuto Chris Cunningham un anno a casa sua. Era indispensabile avere un robot vero sul set, in mezzo agli attori umani, per farci vivere l'inquietante domanda attorno cui ruota il film.
Jane Struthers, capo pubblicazioni dell'Università delle Arti, sede del Kubrick Archive, si assume il compito di sbrogliare la matassa dei venticinque anni di studi, preparazione ed esperimenti sul film. Nel suo articolo intervista Brian Aldiss, autore della novella e primo collaboratore alla sceneggiatura, Ian Watson, secondo scrittore di fantascienza responsabile della gran parte del trattamento finale, Sara Maitland, scrittrice chiamata a enfatizzare il lato umano e sentimentale della storia, Chris Baker, disegnatore assunto da Kubrick per inventarsi da zero il look del film, i tecnici della Industrial Light & Magic di George Lucas, responsabili degli effetti digitali, e lo staff degli Stan Winston Studio, creatori degli animatronics.
Grazie a queste testimonianze e alla sua preparazione, la Struthers tenta, e riesce, a dar conto della incredibile ricchezza filosofica dietro al progetto kubrickiano, in pagine così dense di riferimenti ai libri sull'Intelligenza artificiale di Marvin Minsky, Hans Morevec e Arthur Koestler, e perfino – mirabile dictu – di connessioni proustiane (La Ricerca del Tempo Perduto come saggio sul funzionamento della memoria, preso a modello per l'ultimo atto del film) che convincono a riconsiderare il film come qualcosa di più del solito omogeneizzato spielberghiano.
Dopo un breve testo di Brian Aldiss sui disegni di Chris Baker, seguono tre capitoli, uno per ogni atto del film – l'arrivo, il viaggio, la scoperta – con testi scritti sempre dalla Struthers combinando un riassunto della trama, suggerimenti per una lettura attenta del film (motivi circolari ripetuti, rimandi tra scene, uso di specchi e immagini riflesse, ecc.), ricordi di Baker su cosa era stato discusso in fase di progettazione degli storyboard tra lui e Kubrick, commenti degli scenografi, dei tecnici e dei creatori di effetti che hanno lavorato con Spielberg al suo film. I testi sono corredati da moltissimi disegni di Baker, alcuni fotogrammi del film, qualche foto di scena e passaggi dal trattamento di Ian Watson e battute dalla sceneggiatura di Spielberg.
Devo dire che il mix di questi elementi (una dichiarazione di un tecnico che avvia uno spunto di riflessione affiancato da un disegno di Baker confrontato con un fotogramma del film, e così via) è estremamente efficace. Leggendo e sfogliando il libro, il film torna alla memoria e, quasi miracolosamente, i suoi elementi vengono messi meglio a fuoco, le sensazioni emotive suscitate riaffiorano e si combinano con le idee esplorate nella prima parte del libro.
Viene anche molto abilmente restituita la volontà degli artisti coinvolti di rispettare l'idea originaria di Kubrick, attenendosi ai ricordi di Baker e frenando il più possibile la tentazione di interpretare o di concludere quel che era ambiguo. Non so quanto questo effetto sia creato ad arte o quanto invece (fortunatamente, dico da ammiratore di Kubrick) sia stato semplicemente raccontato, tuttavia il messaggio del tentato rispetto della visione kubrickiana passa, e passa bene.
Purtroppo il libro prosegue con un superfluo commento di Jan Harlan che rovina l'atmosfera di convincente sottotono ribadendo a colpi di grancassa quanto Kubrick sarebbe stato fiero del film diretto da Spielberg. Mi ero quasi convinto della bontà dell'operazione, molto più di quanto lo ero stato nel 2001 all'uscita del film, e poi l'inevitabilità delle conclusioni facili à la Harlan è tornata a infastidirmi. Può anche darsi che Kubrick avrebbe apprezzato A.I. di Spielberg, ma non è possibile dirlo e soprattutto è una considerazione che non spetta certo al produttore (esecutivo) del film. "I grandi artisti sono generosi perché se lo possono permettere," chiosa Harlan sottintendendo che la cessione della sedia da regista era programmata e sarebbe avvenuta comunque. Non abbiamo prove (anzi, in realtà abbiamo indizi a sfavore) e vano è sperare che il nostro abbia il buon gusto di non sostituirle col tautologico "io lo conoscevo bene e ve lo posso garantire."
La tanto strombazzata (all'epoca) frase di consegna dell'opera, "I write and you'll direct," ribadita da Spielberg in ogni intervista e ripetuta anche da un esageratamente soddisfatto Jan Harlan, a me ha sempre suonato come una delle classiche battute di Kubrick, quelle sparate assurde con cui sorprendeva l'interlocutore lasciandolo incredulo a baloccarsi tra l'implausibilità del commento appena sentito e la supposta verità dello stesso giacché proferito da Stanley Kubrick in persona. Della stessa categoria è ad esempio l'invito fatto a Raphael sull'andare sul set di Eyes Wide Shut proprio quando ci sarebbe stata la Kidman nuda, o i divertiti commenti riportati da Michael Herr nel suo libro.
Chiude il libro un saggio di Cynthia Breazel, direttrice dell'unità robotica del MIT, che ripercorre la storia delle ricerche sull'intelligenza artificiale e dei tentativi di costruire robot senzienti; inoltre, racconta il suo coinvolgimento al film A.I. in veste di consulente tecnico per la campagna promozionale, ruolo che l'ha portata infine a collaborare con Stan Winston alla creazione di Leonardo, primo robot animato senziente, un "vero personaggio" che resta vivo anche quando le macchine da presa si spengono. Il pupazzo Leonardo, oltre all'obiettivo di far avanzare la tecnologia robotica, ha permesso anche di raggiungere il secondo scopo degli studi sull'intelligenza artificiale, quello di capire meglio il nostro comportamento sociale e la nostra relazione con le macchine intese come specchi di noi stessi. La Breazel ci rivela in chiusura di essersi emozionata nell'aver visto molte persone reagire alla presenza di Leonardo con simpatia, tenerezza e affetto. Ecco, Jan, vedi? Aveva ragione Kubrick.
Sono sempre quello che si lagna per la mancanza di esaustività o per la frustrazione del desiderio di avere TUTTO: questa volta la bellezza di questo libro ha arginato le lamentele. Di più, l'efficacia dei testi della Struthers potrebbe perfino iniziare un processo di rivalutazione del film di Spielberg.
Insomma, un superbo lavoro di editing (inteso come selezione e giustapposizione degli elementi) per una lettura sorprendentemente chiarificatrice e illuminante. Sì, è vero, avrei voluto tutti i mille e mille disegni di Chris Baker e le centinaia di appunti di Kubrick e tutto il trattamento di Watson e le riscritture della Maitland, avrei voluto tutto questo, eppure erano anni che non mi entusiasmavo così per un libro su Kubrick.
Kubrick si era interessato ai computer e alle intelligenze artificiali alla fine degli anni '60, in piena lavorazione di 2001: Odissea nello Spazio; leggendo la novella di Brian Aldiss – il piccolo androide inconsapevole della sua condizione artificiale che desidera ardentemente l'amore della sua mamma, un'umana – aveva trovato un nocciolo perfetto attorno cui costruire una storia che avesse la complessità di un trattato filosofico pari a quelli che stava leggendo come documentazione (Mind Children di Hans Moravec soprattutto, con la sua mistura di scienza e socio-biologia) e al contempo l'impatto inconscio e di pancia di ogni mito.
Quale dovere morale avremmo noi umani – si chiedeva Kubrick – verso un robot da noi costruito che avesse la capacità di amare, di provare un genuino sentimento d'affetto e attaccamento verso uno della nostra specie? Sarebbe l'equivalente di un animale domestico? Sarebbe qualcosa di simile a un nostro figlio? Che dignità ontologica avrebbe questo essere creato a nostra immagine e somiglianza in un atto di marcata emulazione divina? E' facile individuare qui echi del Frankenstein di Mary Shelley, mito moderno sulla falsariga del classico Prometeo.
E ancora, sulla scia degli studi di psicologia cognitiva che simulano artificialmente il nostro comportamento per individuarne le specificità, cosa è l'amore? Cosa sono i nostri sentimenti, se un essere artificiale può emulare il comportamento di qualcuno che li prova? E se un robot si comporta come chi ama, si può dire che ami veramente? Cosa serve per amare? Vengono giustamente le vertigini a pensare a questi interrogativi.
Ma il progetto A.I. andava perfino oltre: combinando la storia dell'androide bisognoso d'affetto David con le disavventure del burattino Pinocchio (nuova variazione sullo stesso mito, con ribaltamento di prospettiva dal creatore alla creatura), Kubrick aveva compiuto un assoluto colpo di genio, individuando nella fiaba di Collodi il vero mito di fondazione della cultura degli androidi: il desiderio di essere umani, di diventare "un bambino vero," di raggiungere il regno della realtà, della verità, dove stavano coloro che li avevano creati. Forse, suggeriva Kubrick, solo diventando "veri," diventando umani, i robot avrebbero potuto ottenere l'approvazione dei loro creatori, guadagnandosi il diritto all'esistenza da noi gelosamente custodito e negato con innegabile disagio.
Kubrick avrebbe così anche indirettamente realizzato il miglior adattamento cinematografico di Pinocchio, cogliendone l'essenza, il cuore pulsante, il mito che Collodi non poteva pienamente comprendere perché ancora legato a un semplice burattino di legno e inconsapevole della pervasività dei burattini moderni di metallo e silicio. Un innesto potentissimo quello tra Aldiss e Collodi, anche a costo di rasentare il ridicolo inserendo la Fata Turchina in un film di fantascienza. Forse, suggeriva Kubrick con questo colpo di teatro, solo la magia avrebbe potuto permettere agli umani di superare le loro resistenze, di vedere come i robot senzienti potrebbero essere il naturale e inevitabile passo per scongiurare l'estinzione della specie umana, un passo non solo tecnologico ma evolutivo.
"They hate us, you know, the humans," ammette dolorosamente Gigolo Joe al piccolo David, e nella storia si apriva un altro squarcio, quello del diverso, il secolare muro eretto dalle maggioranze per tenersi ben distinte dalle minoranze, siano esse lo schiavo, la donna, l'omosessuale, il negro e, certo, il muro contro il diverso per eccellenza: lo spettro dell'Olocausto, evento di enorme importanza per Kubrick.
Super-Toys era un racconto perfetto per un film di Kubrick: una base narrativa, una storia efficace (anzi due dopo l'arrivo di Pinocchio) su cui poggiare i castelli teorici assorbiti in trent'anni di letture sull'argomento, una serie di domande ben più importanti delle risposte, una favola per adulti che puntava coraggiosamente alla fondazione di un nuovo mito moderno. Troppo complesso da gestire, un costrutto troppo pesante da sorreggere. Non sorprende che il progetto procedesse con lentezza durante gli anni, ostacolato come è stato detto dall'arretratezza degli effetti speciali ma anche, ne sono convinto, dalla sensazione di non aver ancora messo tutti i pezzi al loro posto. Però procedeva, andava indubbiamente avanti, nuovi tasselli, nuovi incastri, nuovi consulenti con il loro altrettanto valido contributo: Brian Aldiss, Bob Shaw, Ian Watson, Sara Maitland, la ILM, Chris Baker, tutti hanno lasciato il loro tassello, più o meno allineato con gli altri.
Il puzzle in costruzione è stato spazzato via da una imprevista folata di vento nel 1999 e ricomposto nel 2001 da Steven Spielberg. Proprio lui inaugura questo libro con una prefazione che racconta brevemente la sua amicizia con Kubrick e la collaborazione sul progetto, non senza qualche errore fattuale (nel 1993, convocato a Childwickbury dopo Jurassic Park, non poteva aver visto i disegni di Chris Baker, iniziati nel 1994) ma con indubbia modestia: "as proud of the film as I may be, I still wish we could have seen Stanley's version of A.I. It might have been his greatest achievement."
Devo tutto sommato dare atto a Spielberg di aver affrontato il compito di dirigere A.I. con passione e sincerità: il fatto di non aver assunto alcuno sceneggiatore per ricavare uno script dal groviglio di appunti e trattamenti kubrickiani scegliendo invece di scrivere tutto da solo, una cosa che non faceva dal 1977 con Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, è l'indubbia prova della sua volontà di rispettare il suo legame con Kubrick e mantenere il più possibile intatte le discussioni che i due avevano fatto sul progetto. Evitare uno scrittore su commissione ha impedito che si frapponesse un altro filtro tra noi e il film che avrebbe diretto Kubrick, oltre quello inevitabile della sensibilità di Spielberg.
Jan Harlan, produttore esecutivo di Kubrick e vera anima dietro alla realizzazione postuma di A.I., scrive al contrario un'introduzione dai toni forzatamente epici: "alla morte di Stanley nel 1999, vidi i mille disegni di Baker scivolare nell'oceano dell'oblio, insieme alla storia, alla sceneggiatura, ai tentativi falliti, all'entusiasmo e all'amore per questo progetto ambizioso. Ma Steven Spielberg è arrivato in soccorso e ha salvato tutto quanto..." Ripetendo il luogo comune del passaggio di consegne tra registi ("He's the best director for this anyway," sente Kubrick ripetere dalle nebbie del tempo) Harlan ci spiega come la sceneggiatura scritta da Spielberg sia migliore di quella abbozzata da Kubrick: può darsi, fatto sta che lo dice da otto anni senza permetterci di leggerla; ci deve bastare di sapere che Spielberg ha sviluppato alcuni personaggi, scartato certe scene e aggiunte altre, e dato una spinta in avanti alla trama.
Il punto peggiore arriva quando Harlan racconta come il problema principale nel 1993 fosse la realizzazione di un convincente robot bambino: "Nessuno avrebbe creduto che il personaggio della madre avrebbe potuto amare un pupazzo." La scelta ovvia era utilizzare un bambino vero, ma Stanley aveva lunghi tempi di lavorazione e ben sapeva che si sarebbero notati cambiamenti dovuti alla sua crescita. Fortuna che è arrivato Spielberg con le sue produzioni lampo, dice Harlan. Peccato, dico io, che Harlan non abbia minimamente compreso il punto che si nascondeva dietro l'ostinazione di Kubrick di voler creare un animatronic convincente: immaginiamoci i climax emotivi del film, con David abbandonato nel bosco da sua madre, o il suo suicidio dopo le sconvolgenti rivelazioni sulla sua vera natura, o perfino le lacrime che scendono dai suoi occhi quando si sente finalmente dire "ti amo" da sua mamma – immaginiamoci queste scene "recitate" da un robot, immaginiamoci tutto il film senza il pur bravo Haley Joel Osment; il pubblico si sarebbe emozionato, avrebbe pianto perfino, per i sentimenti provati da una macchina. Un essere digitale (un Gollum, per citare l'esempio più riuscito) non avrebbe toccato il punto teorico con la stessa efficacia, per questo aveva tenuto Chris Cunningham un anno a casa sua. Era indispensabile avere un robot vero sul set, in mezzo agli attori umani, per farci vivere l'inquietante domanda attorno cui ruota il film.
Jane Struthers, capo pubblicazioni dell'Università delle Arti, sede del Kubrick Archive, si assume il compito di sbrogliare la matassa dei venticinque anni di studi, preparazione ed esperimenti sul film. Nel suo articolo intervista Brian Aldiss, autore della novella e primo collaboratore alla sceneggiatura, Ian Watson, secondo scrittore di fantascienza responsabile della gran parte del trattamento finale, Sara Maitland, scrittrice chiamata a enfatizzare il lato umano e sentimentale della storia, Chris Baker, disegnatore assunto da Kubrick per inventarsi da zero il look del film, i tecnici della Industrial Light & Magic di George Lucas, responsabili degli effetti digitali, e lo staff degli Stan Winston Studio, creatori degli animatronics.
Grazie a queste testimonianze e alla sua preparazione, la Struthers tenta, e riesce, a dar conto della incredibile ricchezza filosofica dietro al progetto kubrickiano, in pagine così dense di riferimenti ai libri sull'Intelligenza artificiale di Marvin Minsky, Hans Morevec e Arthur Koestler, e perfino – mirabile dictu – di connessioni proustiane (La Ricerca del Tempo Perduto come saggio sul funzionamento della memoria, preso a modello per l'ultimo atto del film) che convincono a riconsiderare il film come qualcosa di più del solito omogeneizzato spielberghiano.
Dopo un breve testo di Brian Aldiss sui disegni di Chris Baker, seguono tre capitoli, uno per ogni atto del film – l'arrivo, il viaggio, la scoperta – con testi scritti sempre dalla Struthers combinando un riassunto della trama, suggerimenti per una lettura attenta del film (motivi circolari ripetuti, rimandi tra scene, uso di specchi e immagini riflesse, ecc.), ricordi di Baker su cosa era stato discusso in fase di progettazione degli storyboard tra lui e Kubrick, commenti degli scenografi, dei tecnici e dei creatori di effetti che hanno lavorato con Spielberg al suo film. I testi sono corredati da moltissimi disegni di Baker, alcuni fotogrammi del film, qualche foto di scena e passaggi dal trattamento di Ian Watson e battute dalla sceneggiatura di Spielberg.
Devo dire che il mix di questi elementi (una dichiarazione di un tecnico che avvia uno spunto di riflessione affiancato da un disegno di Baker confrontato con un fotogramma del film, e così via) è estremamente efficace. Leggendo e sfogliando il libro, il film torna alla memoria e, quasi miracolosamente, i suoi elementi vengono messi meglio a fuoco, le sensazioni emotive suscitate riaffiorano e si combinano con le idee esplorate nella prima parte del libro.
Viene anche molto abilmente restituita la volontà degli artisti coinvolti di rispettare l'idea originaria di Kubrick, attenendosi ai ricordi di Baker e frenando il più possibile la tentazione di interpretare o di concludere quel che era ambiguo. Non so quanto questo effetto sia creato ad arte o quanto invece (fortunatamente, dico da ammiratore di Kubrick) sia stato semplicemente raccontato, tuttavia il messaggio del tentato rispetto della visione kubrickiana passa, e passa bene.
Purtroppo il libro prosegue con un superfluo commento di Jan Harlan che rovina l'atmosfera di convincente sottotono ribadendo a colpi di grancassa quanto Kubrick sarebbe stato fiero del film diretto da Spielberg. Mi ero quasi convinto della bontà dell'operazione, molto più di quanto lo ero stato nel 2001 all'uscita del film, e poi l'inevitabilità delle conclusioni facili à la Harlan è tornata a infastidirmi. Può anche darsi che Kubrick avrebbe apprezzato A.I. di Spielberg, ma non è possibile dirlo e soprattutto è una considerazione che non spetta certo al produttore (esecutivo) del film. "I grandi artisti sono generosi perché se lo possono permettere," chiosa Harlan sottintendendo che la cessione della sedia da regista era programmata e sarebbe avvenuta comunque. Non abbiamo prove (anzi, in realtà abbiamo indizi a sfavore) e vano è sperare che il nostro abbia il buon gusto di non sostituirle col tautologico "io lo conoscevo bene e ve lo posso garantire."
La tanto strombazzata (all'epoca) frase di consegna dell'opera, "I write and you'll direct," ribadita da Spielberg in ogni intervista e ripetuta anche da un esageratamente soddisfatto Jan Harlan, a me ha sempre suonato come una delle classiche battute di Kubrick, quelle sparate assurde con cui sorprendeva l'interlocutore lasciandolo incredulo a baloccarsi tra l'implausibilità del commento appena sentito e la supposta verità dello stesso giacché proferito da Stanley Kubrick in persona. Della stessa categoria è ad esempio l'invito fatto a Raphael sull'andare sul set di Eyes Wide Shut proprio quando ci sarebbe stata la Kidman nuda, o i divertiti commenti riportati da Michael Herr nel suo libro.
Chiude il libro un saggio di Cynthia Breazel, direttrice dell'unità robotica del MIT, che ripercorre la storia delle ricerche sull'intelligenza artificiale e dei tentativi di costruire robot senzienti; inoltre, racconta il suo coinvolgimento al film A.I. in veste di consulente tecnico per la campagna promozionale, ruolo che l'ha portata infine a collaborare con Stan Winston alla creazione di Leonardo, primo robot animato senziente, un "vero personaggio" che resta vivo anche quando le macchine da presa si spengono. Il pupazzo Leonardo, oltre all'obiettivo di far avanzare la tecnologia robotica, ha permesso anche di raggiungere il secondo scopo degli studi sull'intelligenza artificiale, quello di capire meglio il nostro comportamento sociale e la nostra relazione con le macchine intese come specchi di noi stessi. La Breazel ci rivela in chiusura di essersi emozionata nell'aver visto molte persone reagire alla presenza di Leonardo con simpatia, tenerezza e affetto. Ecco, Jan, vedi? Aveva ragione Kubrick.
Sono sempre quello che si lagna per la mancanza di esaustività o per la frustrazione del desiderio di avere TUTTO: questa volta la bellezza di questo libro ha arginato le lamentele. Di più, l'efficacia dei testi della Struthers potrebbe perfino iniziare un processo di rivalutazione del film di Spielberg.
Insomma, un superbo lavoro di editing (inteso come selezione e giustapposizione degli elementi) per una lettura sorprendentemente chiarificatrice e illuminante. Sì, è vero, avrei voluto tutti i mille e mille disegni di Chris Baker e le centinaia di appunti di Kubrick e tutto il trattamento di Watson e le riscritture della Maitland, avrei voluto tutto questo, eppure erano anni che non mi entusiasmavo così per un libro su Kubrick.
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